Nel precedente articolo abbiamo visto come gli imprenditori, spesso, utilizzino il termine SVEGLIO per sintetizzare tutte le qualità desiderate in un candidato. Abbiamo ipotizzato che l'uso di questo aggettivo sottenda un desiderio d'identificazione dell'imprenditore con il candidato. In questo articolo presenteremo in dettaglio i risultati della nostra ricerca.
Abbiamo cercato di verificare la nostra ipotesi sottoponendo i 23 imprenditori già menzionati ad una semplice prova.
Ad ognuno di loro è stato somministrato il “Big Five Observer” per l’autovalutazione (G.V. Caprara, C. Barbaranelli e L. Borgogni, 1994), strumento che consiste in una scheda di osservazione e valutazione di comportamenti e atteggiamenti sociali. Dopo qualche settimana, in modo apparentemente scollegato, è stato proposto agli stessi intervistati lo stesso strumento per l’eterovalutazione, con riferimento alla valutazione del loro “candidato ideale” da inserire in azienda. Il Big Five Observer descrive gli elementi cardine della personalità secondo il noto modello dei “BIG FIVE”: energia, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale.
La nostra ipotesi postula l’esistenza di una relazione tra le caratteristiche che gli imprenditori attribuiscono a loro stessi e al candidato ideale. A tale proposito, i valori risultanti dall’autovalutazione sono stati messi a confronto con quelli relativi all’eterovalutazione riferita al candidato ideale per ognuno dei cinque fattori del Big Five.
Il test della “Correlazione per ranghi di Spearman” ha evidenziato una correlazione positiva significativa per tutti i cinque fattori. In altre parole, più un imprenditore crede di possedere una determinata caratteristica, più essa viene attribuita al candidato ideale. Ciò avviene anche in senso opposto: caratteristiche percepite lontane da sé lo sono anche dal candidato ideale. La relazione dunque conferma la bontà dell’ipotesi formulata, ed è riassunta dal grafico seguente.
È relativamente semplice accettare che il processo di valutazione di un candidato passi attraverso la ricerca (anche inconscia) di qualità che il selezionatore ritiene di avere. Più complesso è stabilire se questo sia un limite o un plus della valutazione, e, nel caso si ritenga sia un limite, quali tecniche permettano di superarlo.
Il LIMITE del processo di identificazione
L’impresa è un insieme di risorse complementari e proiettate ad uno scopo comune. Più è ampio il contributo che le risorse apportano, più sarà agevole il raggiungimento dello scopo comune. La presenza di duplicati delle risorse (umane e non umane) non genera valore aggiunto, a meno che non ci si voglia tutelare dal rischio di black out con delle sorte di “back up”. Se ciò può avere un senso per le risorse NON UMANE ad alto rischio di rottura, risulta invece difficile pensare allo stesso modo per le risorse UMANE.
Di conseguenza, un candidato che presenti le stesse qualità del selezionatore, o della figura che con lui dovrebbe interagire, potrebbe non essere il MEGLIO, finendo per sottrarre la variabilità necessaria a generare nuove idee. Inoltre, bisognerebbe dimostrare che personalità con tratti simili sono davvero in sintonia in un ambiente di lavoro di tipo gerarchico. Potrebbe non essere così singolare scoprire che caratteri simili non generano necessariamente una sinergia efficace, in grado di trasformarsi in clima positivo e vantaggio competitivo per l’impresa.
IL VANTAGGIO del processo di identificazione
La differenza nelle imprese la fanno le persone. Qualcuno le deve scegliere. Le persone non sono impianti che posso essere ricondotti ad una funzione matematica, dove dati certi elementi di input avremo un output certo e misurabile in un definito periodo di tempo. Le persone sono “persone”, appunto, quindi nel processo di scelta, non avendo a disposizione una funzione “matematica”, dobbiamo avere dei riferimenti dati dall’esperienza. Perciò, quando è possibile, i criteri di scelta che hanno avuto successo dovrebbero essere replicati.
Chi sceglie i collaboratori sa quali difficoltà incontreranno e quali efficienze sono richieste. Sa quali caratteristiche e competenze possono essere le più adatte ad affrontare il “sistema” azienda. Il selezionatore (o il team dei selezionatori) conosce questi elementi e sa come devono essere affrontati, poiché lui (o il team) li ha già vissuti e superati (visto che è ancora lì). Dunque, riconoscendo la necessità di coinvolgere nel processo di selezione CHI svolge già quella mansione (o CHI dovrà formare il nuovo collaboratore), difficilmente si potrà sbagliare se si selezionano candidati con personalità e competenze simili a quella del selezionatore (riferite a quando anche lui fu un “NEO ASSUNTO”).
Conclusioni
E allora? Quale di queste due strategie è consigliabile? Posto che il processo di identificazione avviene comunque, non sarebbe il caso di ampliare il ventaglio dei selezionatori in modo da vedere il NUOVO emergere dal candidato, ricercare ciò che ancora non c’è? Non sarebbe meglio sfruttare questo fenomeno e trasformarlo in un metodo vincente? E infine, posto che ogni selezionatore ha caratteristiche proprie che tenderà a proiettare e ricercare, non sarebbe utile per lui averne consapevolezza, in modo da monitorare gli effetti di questo meccanismo naturale?
Ogni impresa, consciamente o meno, adotta un proprio metodo. Fortunatamente non potremo mai affermare cosa è meglio o peggio nella scelta dei collaboratori. Forse solo in AMORE c’è una similitudine, un delicato equilibrio fra una scelta che sembra opportuna e quella che è spinta dal cuore. Talvolta funziona, talvolta no, talvolta cambia intanto che si vive. Ma la coscienza di due scenari possibili può aiutare a completare un processo in modo corretto ed efficiente.
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