Dipendenza da lavoro: il ruolo dell’azienda nell’attività di prevenzione

Negli anni la ricerca sulle cause della dipendenza da lavoro è stata caratterizzata da diversi approcci teorici che hanno cercato di spiegare l’interazione tra diverse variabili e workaholism, tuttavia è difficile individuare un corpus teorico univoco o una teoria che prevalga sull'altra.

Come suggerito da McMillan e O’Discroll, la dipendenza da lavoro è un fenomeno di origine multifattoriale da analizzare in un contesto multidisciplinare, ed è improbabile che scaturisca da un unico fattore o che possa essere spiegato da una sola teoria. Molto probabilmente, la grande diffusione di tale fenomeno nell'ultimo decennio è strettamente collegata a due fattori legati ai recenti mutamenti culturali, sociali economici e tecnologici. In primo luogo, i moderni strumenti tecnologici quali smartphone e tablet, assieme alla generale possibilità di utilizzare internet e leggere e-mail in qualsiasi momento, hanno permesso ai lavoratori di operare ovunque 24h su 24, anche nel week end e in vacanza, allungando i tempi del lavoro e annullando sempre di più i momenti di reale stacco da esso. In secondo luogo, un mercato del lavoro instabile e precario come quello odierno, caratterizzato da forme contrattuali sempre meno standard, ha generato una diffusa insicurezza lavorativa, specialmente tra i più giovani, che spinge gli individui a lavorare sempre più intensamente, con impegno e competizione, sacrificando la vita privata e gli affetti nella speranza di guadagnarsi una posizione lavorativa stabile, o di non rischiare di perderla in caso di ristrutturazioni aziendali.

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Questi fattori legati al contesto sociale rappresentano condizioni facilitanti, ovvero terreno fertile per lo sviluppo di dipendenza da lavoro, tuttavia non sono condizioni sufficienti. Nello sviluppo della patologia, infatti, intervengono senza dubbio dinamiche psicologiche e motivazionali profonde, e gran parte degli autori concordano sulla teoria che molti soggetti tendano a sviluppare workaholism per compensare un senso di inadeguatezza in ambiti extra-lavorativi. Spesso i dipendenti da lavoro sono (o sono stati) mariti, mogli, padri, magli o figli/e che non si sono sentiti o non si sentono all'altezza dei compiti e dei ruoli familiari e sociali, e pertanto si rifugiano, inconsapevolmente ma totalmente, nell'attività lavorativa che rappresenta l’unico ambito su cui sentono di avere controllo, nel quale possono sperimentare un Sé Positivo alleviando sentimenti di impotenza, vuoto, ansia e bassa autostima.

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La dipendenza da lavoro è ancora molto sottovalutata nell'ambito del disagio psicologico e non è ancora stato individuato un trattamento specifico. Solitamente i primi segnali del disturbo vengono ignorati dalla persona, o affrontati in maniera episodica su base farmacologica. Spesso si richiede aiuto in una fase molto avanzata del disturbo, quando iniziano a comparire sintomi psicosomatici o psichiatrici gravi. Lo strumento più efficace per contrastare e limitare condotte patologiche come la dipendenza da lavoro è la prevenzione. La scuola potrebbe rappresentare un efficace strumento di prevenzione, informando i giovani: bisogna prevenire informando sull'esistenza del workaholism e far sì che l’informazione si estenda anche alle famiglie.

Ma la prevenzione è fondamentale anche e soprattutto nel contesto lavorativo, dove è auspicabile che si organizzino corsi di formazione atti a sensibilizzare lavoratori e dirigenti, non solo su tematiche più note (come stress lavoro-correlato, mobbing e burnout) ma anche sul fenomeno del workaholism e sulle conseguenze dannose che ha, sia sul benessere psicofisico di chi ne è affetto sia sul contesto lavorativo in cui è inserito. Potrebbe essere utile informare circa l’esistenza di questionari di autovalutazione come il Work Addiction Risk Test (WART), messo a punto da Robinson, che è il più utilizzato e facile da reperire sul web, al quale sottoporsi o far sottoporre colleghi o parenti in presenza di campanelli d’allarme, per comprendere se si è in qualche modo a rischio dipendenza da lavoro o a quale livello del disturbo si è già arrivati.

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Alle aziende resta il compito di impostare un ambiente di lavoro e abitudini professionali sane, perché troppo spesso sono loro stesse ad agire da “pusher” nella dipendenza da lavoroSarebbe utile, in tal senso, mettere in atto misure precauzionali che favoriscano il corretto bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. Non è un mistero, purtroppo, che molti lavoratori siano stimolati a trascorrere tantissime ore in azienda, poiché il tempo è il parametro principale sul quale viene determinato il valore della prestazione a scapito di altri (come la qualità del lavoro effettivo). Al contrario, bisognerebbe fornire feedback positivi sulla qualità dell’operato e la gestione del tempo, senza puntare necessariamente ad una diminuzione assoluta della quantità di lavoro: una strategia concreta potrebbe essere quella di limitare l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione per scopi professionali al di fuori dell’orario lavorativo, bloccando le comunicazioni aziendali (invio e ricezione di email) durante fasce orarie “intoccabili” o nel corso di vacanze natalizie ed estive. Queste precauzioni potrebbero aiutare a confinare il lavoro nei suoi luoghi e tempi tradizionali, permettendo all'individuo di riuscire a ricavare sufficienti tempi e spazi per la propria vita personale, i propri interessi extra lavorativi e relazioni familiari. In attesa, naturalmente, che il rapporto ore lavorate - presenza fisica - valore prestazionale venga radicalmente ripensato.

È innegabile, in conclusione, che il lavoro sia un valore centrale nella vita dell’individuo, che ne definisce l’identità e che contribuisce ad accrescerne l’autostima, ma è altrettanto vero che esso non dovrebbe arrivare a determinarne il valore personale e l’identità psicosociale, al punto da sacrificare la salute e le relazioni che conferiscono alla vita il vero nucleo di significato.

Il lavoro dovrebbe essere alla base di una necessità di sostentamento, offrire soddisfazione e realizzazione che non culminino in ossessione e non sfocino in condotte lavorative disfunzionali: non dovrebbe invadere la sfera personale o, peggio ancora, sovrapporsi completamente ad essa senza più distinzioni o barriere. Spesso si confonde la dipendenza da lavoro con lo stress lavorativo, o con il fenomeno del burnout, ma il workaholism si pone aldilà di tali problematiche: esso riguarda un comportamento disfunzionale compulsivo che alla base ha elementi multipli, talmente profondi da incidere su tutti gli aspetti della vita dell’individuo. La società e le organizzazioni fanno la loro parte nel “rinforzare” tale meccanismo, considerando “virtuosi” i comportamenti tipici dei dipendenti da lavoro e sottovalutando, nella stragrande maggioranza dei casi, le conseguenze sulla salute psicofisica della persona e le ricadute negative indirette sull'efficienza lavorativa.

L’impegno e la dedizione al lavoro sono valori fondamentali e positivi nella vita dell’individuo, perciò andrebbero sempre e comunque incoraggiati: è auspicabile, tuttavia, nel momento storico in cui viviamo, fatto di “tecno-stress” e precarietà, che si stimoli una profonda riflessione etica del lavoro, in grado di riconoscere come primario il valore della qualità della propria esistenza, più che il valore economico che la nostra esistenza può produrre.

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